La “giustizia interna”, ovvero l’autodichia costituisce “il miglior ausilio della sopravvivenza dell’associazione” (I. Cacciavillani).
Essa è rivolta a tutelare, in primo luogo l’associazione stessa (“id est” l’Ordine o Collegio Professionale) tanto che il promovimento dell’azione disciplinare è eminentemente discrezionale.
La competenza a decidere l’illecito disciplinare degli ingegneri è del Consiglio dell’Ordine al quale l’inquisito è iscritto.
Sono applicabili gli istituti dell’astensione del componente e della ricusazione (per interesse personale alla trattazione) con riferimento agli artt. 51 e 52 del codice di procedura civile.
Occorre considerare che il Ministero della Giustizia, in persona del Direttore generale, ha recentemente chiarito che nei procedimenti disciplinari a carico degli iscritti della sezione B “va assicurata priorità al criterio della competenza professionale con attribuzione del giudizio disciplinare a consigli composti da appartenenti allo stesso settore dell’albo del professionista da giudicare, anche in composizione monocratica, o rivolgendosi al Consiglio viciniore – mentre soltanto in via subordinata potrà trovare utilizzo il criterio dell’ambito territoriale”.
Si tratta di previsioni desunte dall’art. 4 del DPR 5.6.2001, n. 328 e art. 9 del DPR 8.7.2005, n. 169 rimaste in vigore anche dopo il DPR n. 137/2012.
La “ratio” di queste disposizioni si pone in coerenza con il principio della tutela, primariamente, dell’Ordine professionale.
Ciò comporta che sia il professionista “più vicino” all’inquisito a giudicarlo perché la sua Sezione può subire discredito dalla condotta ipoteticamente illecita del collega, prima ancora che l’Ordine nella sua totale composizione.
L’autodichia funziona, quindi, come una sorta di medicina omeopatica secondo cui “similia similibus curantur”.
L’assenza di fondamento scientifico del principio rileva in medicina, ma non nel giudizio disciplinare in cui contano doti soggettive certamente non misurabili “a priori” quali l’imparzialità, l’indipendenza e la neutralità.
Sono questi i requisiti di un buon Giudice che possono valere anche per i componenti delle commissioni disciplinari. Esse devono valutare la condotta dell’iscritto per tutelare la dignità ed il decoro dell’Ordine e, di riflesso, il corretto espletamento dell’incarico professionale nei confronti dell’utente.
Tale valutazione deve essere, al definitivo, imparziale, in quanto non legata all’inquisito e neppure all’utente, indipendente da autorità o soggetti esterni all’ordine, e non inficiata da alcun pregiudizio.
Al definitivo l’Ordine professionale è tenuto al rispetto del giusto procedimento perché il giudizio ha al centro un cittadino “che, per la stessa legittimazione dell’ordinamento nel suo complesso, deve godere di tutte le garanzie volute dalla Costituzione” (I. Cacciavillani).
Ancora una volta il giudizio richiede il rispetto delle norme fondamentali che regolano lo Stato di diritto da parte di ogni Giudice.
Come ha affermato un insigne giurista, si deve “Giudicare, non punire. Punire può chiunque, perché il punire non è che azione, brutale azione. Punisce Minosse avvinghiando la coda: ma il giudizio, quando l’anima si presenta di fronte a lui, è già compiuto, in una sfera nella quale egli, demonio, non può penetrare” (S. Satta).