Una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, anche se non recente (19 agosto 2010, n. 18747), fornisce spunti non scontati in tema di responsabilità professionale dell’ingegnere.
Il contenzioso era iniziato con la notifica di un decreto ingiuntivo nei confronti dei committenti per il pagamento della somma di lire 113.719.691 a titolo di compenso per due distinti progetti.
Gli ingiunti, come si legge nella sentenza, avevano proposto opposizione sostenendo di non aver ottenuto il titolo abilitativo per gravi errori del progettista: “il primo dei quali era costituito dall’inserimento nella superficie del costruendo immobile di un’area di proprietà comunale; altre palesi incongruenze erano ravvisabili nella previsione di una volumetria certamente sproporzionata e di un’altezza eccessiva dell’edificio, cosicché tali errori avevano reso il progetto irrealizzabile; essi inoltre proponevano una domanda di risarcimento danni nella misura di L. 800.000.000 sul presupposto che il comportamento del G.G. avesse di fatto impedito la realizzazione dell’opera”.
La Corte d’Appello aveva ritenuto: “quanto al primo progetto redatto dal G.G., che il fatto che esso prevedesse l’inserimento di una superficie di proprietà comunale di mq. 50 non determinava il venir meno dell’obbligo dei committenti di retribuire il professionista, considerato che tate difetto era da loro conosciuto ed anzi era frutto della loro volontà, avendo il G.G. riportato fedelmente le indicazioni ricevute; la circostanza poi che il secondo progetto presentasse una cubatura lievemente inferiore a quella prevista del pari non comportava l’insussistenza dell’obbligo di corrispondere il compenso dovuto, trattandosi di difetto facilmente emendabile”.
La Corte di Cassazione ha precisato che l’irrealizzabilità dell’opera progettata, nella fattispecie concreta, non costituiva inadempimento dell’incarico, ciò che avrebbe consentito al committente di rifiutare il compenso avvalendosi dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., essendo tale conseguenza esclusa: “dalla accertata circostanza che furono proprio i committenti a pretendere che il G.G. inserisse nel progetto anche la superficie di proprietà comunale, come evidenziato dal professionista nella relazione al progetto, laddove era stato affermato che tale inserimento era stato effettuato su specifica richiesta da parte della N.A. e del M.C.; pertanto, essendo ciò avvenuto per uno specifico interesse di costoro nell’ambito quindi dell’esplicazione del principio di autonomia contrattuale riconosciuto alle parti dall’ordinamento giuridico, la circostanza stessa non può essere configurata come inadempimento del professionista agli obblighi legali e contrattuali posti a suo carico, e non può quindi comportare l’insussistenza dell’obbligo dei committenti di corrispondergli il compenso”.
Deve osservarsi che il progetto non sarebbe stato comunque assentibile, in primo luogo, ai sensi dell’allora vigente art. 4 legge n. 10/1977 che dispone: “La concessione è data dal sindaco al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla con le modalità, con la procedura e con gli effetti di cui all’articolo 31 della legge 17 agosto 1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi e, nei comuni sprovvisti di detti strumenti, a norma dell’articolo 41-quinquies, primo e terzo comma, della legge medesima, nonché delle ulteriori norme regionali”.
Poi ripreso dell’art. 11 D.P.R. 380/2001 che dispone: “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell’immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Quindi il progetto sarebbe stato utilmente presentabile in Comune solo se ci fosse stata certezza della cessione dell’area comunale inclusa nel progetto.
La Corte di Cassazione ha evidentemente ritenuto che il progettista si fosse comportato correttamente solo inserendo nella relazione al progetto che l’estensione dello stesso su una superfice di proprietà comunale fosse stata effettuata su richiesta dei committenti.
La conclusione della vicenda suscita qualche perplessità proprio in tema di buona fede nell’esecuzione delle prestazioni e di diligenza da parte del professionista.
Stando alla sentenza si potrebbe invece affermare che il diritto al compenso non è escluso dall’ignoranza della legge da parte del committente.
Avv. Mario Lavatelli