L’attività dell’ingegnere è necessariamente soggetta all’evoluzione dei tempi e ciò indipendentemente dalle capacità professionali del singolo ingegnere.
Uno studioso ha notato che occorre: “consentire agli studi di progettazione di assumere la forma di società, non tanto perché ciò sia un’esigenza interna dello studio, ma perché è ormai diffusa nell’intero mercato mondiale l’esigenza di controllare la solidità patrimoniale del progettista, a fronte degli imponenti lavori che gli vengono affidati e delle responsabilità che ne conseguono, responsabilità peraltro rapportate all’ammontare non del compenso, già di per sé ragguardevole, sibbene delle opere da edificare. Da ciò la necessità dell’adozione di una forma societaria, sottoposta a un regime di pubblicità, e in particolare di una forma organizzata su base capitalistica, con le conseguenze derivanti soprattutto sul piano della pubblicità dei bilanci” (M. Bussoletti “Società di professionisti” In Enc. del diritto, 1080).
È chiaro che vi potranno essere fenomeni, probabilmente transitori, di regressione con prevalenza di fasi di polverizzazione delle attività e comunque deve ritenersi incomprimibile la sopravvivenza di attività individuali, spesso meritorie.
Pare probabile però che, in una fase espansiva, le società di ingegneria potrebbero in certa misura avere interesse ad espandersi sui territori con l’effetto possibile di assorbire, almeno in parte, gli studi individuali, giovandosi di vari mezzi come la pubblicizzazione, la riduzione dei compensi ecc.
Rimane una sola “arma” al professionista e cioè la sua scienza e coscienza frutto di studio, di impegno e di esperienza.
Egli deve spaziare dalla scienza pura alle sue applicazioni per la soluzione di problemi contingenti (G. Musolino “La responsabilità del professionista tecnico”).
Opportunamente, il codice civile ha dettato una disciplina autonoma al contratto d’opera intellettuale.
Al definitivo, si tratta non solo di saper inquadrare e risolvere un problema, ma di assumersi, in prima persona, la responsabilità della soluzione.
Come ha notato Stefano Zamagni: “Ma responsabilità, dal latino res-pondus, significa anche portare il peso delle cose, delle scelte effettuate”.
Ogni professionista, nel corso degli anni, sa bene quale peso abbiano comportato le scelte assunte nell’interesse del Cliente.
Sia consentito, senza intento d’enfasi, onorare la memoria di un ingegnere di “casa nostra” che seppe, in tempi ormai lontani, difendere un’opera divenuta capolavoro dell’architettura del Novecento, come si legge in “Il monumento ai caduti Como 1931-1933” a cura di Alberto Artioli e Augusto Roda, che, tra gli altri, ringraziano l’Impresa Nessi & Majocchi che realizzò l’opera.
Si tratta dell’ing. Attilio Terragni, cui era stata affidata la direzione lavori del Monumento ai caduti di Como, su disegno di Antonio Sant’Elia e rielaborazione del pittore futurista Enrico Prampolini, poi sostituito dall’arch. Giuseppe Terragni, fratello di Attilio.
A fronte del parere contrario del Ministero dell’educazione nazionale, a lavori già iniziati, fermo restando che l’area non era sottoposta a vincolo paesaggistico, rispose l’ing. Attilio all’accusa di menomazione dell’armonia del paesaggio, sollevata anche dal Soprintendente Ettore Modigliani per il Novocomum.
Un inciso sorge spontaneo: sembra, a volte, che la tutela ministeriale del paesaggio sia dimostri, diacronicamente, contraddittoria: strali su queste opere ed assenso sull’edificio vistosamente fuori scala, per tacer d’altro, del casinò di Campione d’Italia.
L’ing. Attilio seppe rispondere sulla rivista “Como” mettendo insieme conoscenza del territorio e sapere professionale: “Gli appunti fatti al Monumento di scarso senso ambientale sono del tutto infondati, perché non è chi non veda, giungendo a Como dal Lago, come il profilo di questo nostro monumento a forma di torre (…) si proietti sullo sfondo dell’anfiteatro morenico che circonda la nostra Como, in perfetta corrispondenza armonica con la torre del Baradello e con le tre torri schierate a baluardo della città murata, simboli della fede e della volontà comacina”.
Nulla da commentare a queste “parole alate” di totale confutazione di ogni accusa, se non tenerle ad esempio di come si possa e si debba esprimere un professionista a difesa della sua opera.
Suoni a merito di un successivo Soprintendente regionale per la Lombardia, Carla Di Francesco, avere scritto: “Ai nostri occhi contemporanei, tuttavia, il fascino evocativo ed intellettuale del monumento e della sua collocazione urbanistica è tale che ci sembra che lo sky-line di Como non possa fare a meno di esso; a distanza di settanta anni il giudizio della Soprintendenza è ampiamente rivisto e il Monumento comasco rientra a pieno titolo in quella categoria di beni – le grandi opere dell’architettura del novecento – sulle quali l’Ufficio ha posto, ormai da decenni, la sua attenzione”.
Avv. Mario Lavatelli